Onorevoli Colleghi! - La riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, approvata con legge costituzionale n. 1 del 2001, ha ribadito il mantenimento della provincia quale ente intermedio tra comune e regione, accanto alla città metropolitana, la quale rappresenta, dunque, l'unica innovazione strutturale di rilievo nel sistema degli enti locali a decorrere dall'unità d'Italia.
Eppure, sin dalla nascita della Repubblica molte voci della dottrina, della politica, del mondo del lavoro e della società civile si sono interrogate sull'opportunità di mantenere le province e hanno evidenziato la loro inadeguatezza rispetto alle esigenze di una razionale organizzazione del sistema del decentramento.
In particolare - e senza risalire alle proposte avanzate in passato, soprattutto dai gruppi parlamentari liberale e repubblicano, all'epoca dell'istituzione delle regioni, ma solo per ricordare alcuni dei più recenti interventi - a favore della loro abolizione si sono pronunciati, oltre a vari parlamentari (ad esempio, per l'intervento dell'onorevole Chicco Testa si veda la replica dell'Unione delle province d'Italia - UPI Lazio nel sito dell'Associazione), il Presidente della regione Sardegna, Renato Soru, che ha incaricato una équipe di giuristi di studiare non solo l'abolizione delle quattro province sarde di nuova istituzione, ma anche di quelle storicamente preesistenti. La Confindustria, a sua volta, per voce del suo presidente Luca Cordero di Montezemolo, nella Relazione annuale del 25 maggio 2007 (Il Sole 24 Ore del 24 maggio 2007), ha sottolineato l'esigenza di procedere all'abolizione delle province.
Malgrado tutto ciò, nel recente passato, non solo la riforma del titolo V, ma neppure la Commissione bicamerale per le
a) come è noto, le province nascono dall'alto, quali circoscrizioni prefettizie, con un territorio commisurato al tempo percorso da un messo a cavallo dal confine alla sede prefettizia. Non c'è dunque alcun legame con il bacino di utenza ideale per l'erogazione e il coordinamento dei servizi, nonché per l'espressione della rappresentanza, cui dovrebbe essere commisurato l'assetto degli enti locali alla luce della visione complessiva che la Costituzione ha del sistema del decentramento.
Le province non sono radicate storicamente, diversamente dai comuni, circa i quali, al più, ci si può interrogare sull'opportunità di favorirne l'aggregazione (mentre ogni tentativo forzoso è destinato al fallimento, proprio perché rappresentano un'emanazione della società, sono sedimentati nella cultura e sono vicini alle esigenze della gente). Le province non evocano storia o legami culturali: nulla, come dimostra, da ultimo, la diaspora di innumerevoli comuni che chiedono di passare dal Veneto ad altra regione (da Lamon a tutti i comuni dell'altopiano di Asiago, a molti comuni posti al confine con il Friuli-Venezia Giulia, con picchi dell'80 per cento e oltre di cittadini favorevoli, a testimoniare la labilità dei vincoli connessi al livello provinciale);
b) nel processo decisionale, le province rappresentano un passaggio in più, e anche dalla prospettiva della scienza politica l'aggregazione di interessi a livello provinciale si sovrappone e duplica o moltiplica altre fasi del bargaining per la risoluzione dei problemi. Gli interessi sono infatti già mediati, oltre che a livello politico attraverso partiti, lobby e associazioni, a livello istituzionale per il tramite degli organi comunali, di comunità montana (ove esistente), di altre forme associative, di regione. Risulta paradossale che per svolgere funzioni prevalentemente di coordinamento si mantenga un ulteriore livello di governo, e che l'apparato provinciale sia reputato del pari indispensabile al fine di svolgere le (non numerose) funzioni amministrative di livello sovracomunale, per le quali il principio di sussidiarietà suggerisca di devolvere l'attuazione a livello maggiore del comune;
c) in termini di rappresentanza, nonostante il sistema elettorale introdotto con le riforme degli ultimi anni, volto a favorire un collegamento diretto tra corpo elettorale e presidente della provincia, la «visibilità» di quest'ultimo resta alquanto scarsa, rispetto al presidente della regione, e incommensurabilmente più ridotta di quella del sindaco. A livello provinciale, l'introduzione dell'elezione diretta non ha determinato il rafforzamento di un rapporto virtuoso tra rappresentanza e responsabilità, che invece si percepisce nitidamente per il sindaco e il presidente di regione, trattandosi in questi casi di enti con competenze definite, il cui esercizio ha ricadute dirette sulla rispettiva cittadinanza, e il cui adempimento (corretto o scorretto, buono o cattivo esso sia stato) comporta appunto l'attivazione della responsabilità politica.
La frattura tra rappresentanza e responsabilità (e il generale diffuso disinteresse della gente per le province) è eclatantemente percepita dal corpo elettorale, come dimostrano le statistiche relative alla partecipazione al voto nella tornata amministrativa
d) il problema, nella prospettiva della razionalizzazione dell'amministrazione locale, non si pone in meri termini di costi, ma di rapporto tra costi e benefìci. Se i benefìci sono percepiti dalla popolazione come tali, il loro costo può essere sopportato volentieri. La problematica dell'abolizione delle province, quindi, solo in parte ha a che fare con i costi della politica, recentemente denunciati anche da un autorevole intervento del Presidente della Repubblica del 31 maggio 2007.
I costi sono comunque elevati nei loro valori assoluti, oltre che in rapporto ai benefìci. Nelle province sono attualmente in servizio 60.000 impiegati e il loro costo è di circa 18 miliardi di euro annui (www.politicaonline.net). Ai costi delle province si sommano, per buona parte del territorio nazionale, quelli delle comunità montane, che sono 356, e costano allo Stato 190 milioni di euro all'anno, oltre ai consorzi e ad una pletora di enti intermedi che si sovrappongono parzialmente alle province, proprio a enfatizzare l'incapacità di queste ultime a fungere da livello ottimale di organizzazione dei servizi.
I dati della stessa UPI attestano che il 73 per cento dei bilanci è destinato alle spese correnti e che soltanto il 27 per cento è utilizzato per gli investimenti. Il costo complessivo degli amministratori è di 115.000 milioni di euro. Il costo mensile dei consiglieri va dai 600 ai 2.000 euro al mese (solo per le indennità di base); quello di presidenti e degli assessori va dai 3.000 ai 5.000 euro al mese, a seconda del numero di abitanti per provincia. È stato calcolato che per costituire una nuova provincia (Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza), il solo costo per i nuovi uffici ammonterebbe a 50 milioni di euro. Il commissario per la provincia di Monza e della Brianza ha dichiarato che dal 2005 al 2008 è stato previsto un budget di spesa annuale pari a 16 milioni di euro (fonte: «Report», 1o aprile 2007).
La provincia ha organi elettivi e una sua struttura burocratica, ma ha solo effimeri contatti con il territorio, mentre sua interfaccia sono solo o quasi gli altri livelli di governo.
Soprattutto, data la sua artificialità, anche le funzioni di coordinamento non si svolgono in bacini di utenza omogenei. Ciò fa appunto risaltare il deficit nel rapporto tra costi e benefìci.
Ammesso che serva una struttura intermedia tra comune e regione (che infatti in altri Paesi non è prevista o è stata soppressa), la provincia, con lo stesso personale politico e burocratico, deve organizzare e coordinare funzioni totalmente differenziate: cultura ed economia, acquedotti e ambiente, strade, trasporti, servizi bibliotecari e polizia forestale eccetera, che richiedono un coordinamento in aree che raramente coincidono. Lo stesso discorso vale per le funzioni delegate dalle regioni. Il principio di sussidiarietà, basato sull'esigenza che le funzioni vanno svolte preferibilmente a livello più basso, a meno che non sia più consono il livello superiore, difficilmente permette di individuare quest'ultimo nella provincia.
Una provincia semi-montana (la stragrande maggioranza in Italia) presenta esigenze diverse nella parte di pianura, economicamente più sviluppata, rispetto a quella montagnosa, di volta in volta i diversi servizi che richiedono una gestione sovracomunale possono essere svolti aggregando